Ho finalmente visto il film di
Scorsese su George Harrison, ‘Living in the material world’.
Mi sono dovuto comprare il dvd,
dal momento che in Italia il film è stato distribuito in poche sale e soltanto
per un giorno. Ovvio che la vita di Harrison non rappresenti un argomento
particolarmente interessante per i più, ma limitarlo in questo modo mi è
sembrato poco rispettoso per i fan del quartetto di Liverpool in generale (che
non sono proprio pochi).
Il film è in realtà un
documentario, una carrellata di interviste e materiale di repertorio che
ricorda molto l’Anthology dei Beatles. Scorsese si è cimentato in un paziente
lavoro di recupero di testimonianze, rispettando una fedele impostazione
cronologica, con un primo tempo inerente (musicalmente parlando) l’epoca fab
four, ed un secondo incentrato sulla produzione solista.
Il lavoro documenta in maniera intelligente
la principale caratteristica di Harrison, confermata da un po’ tutti nelle
varie interviste : il continuo confronto tra il mondo spirituale e quello
materiale.
Mentre nella maggior parte degli
esseri umani, questo confronto viene spesso dimenticato (o relegato ai momenti
di effettiva difficoltà), in Harrison è stato un elemento assolutamente
centrale, e la spinta esercitata dalla militanza nei Beatles è stata da questo
punto di vista decisiva.
Difficile essere QUALCUNO in quella
band.
Difficile anche soltanto essere
visto come un autore, quando stai gomito a gomito con due fuoriclasse della
composizione come Lennon e McCartney. Ed
anche se qualcuno ti notasse, non ci sarebbe comunque bisogno di te, del
momento che gli altri due tirano già da soli tutta la carretta.
Harrison, il più giovane dei
quattro, ha incassato i ‘colpi’ della fama e della ricchezza improvvise,
insieme all’impossibilità di essere considerato all’altezza degli altri due,
per gran parte della sua esperienza come scarafaggio del beat. E’ stata quindi la sua irrequietezza a
portare nella band l’elemento esterno (o quello ‘interno’, se preferite) : la mistica dell’induismo.
La fascinazione sonora nei
confronti del sitar lo ha portato dapprima ad avvicinarsi al talentuoso Ravi
Shankar per imparare la tecnica dello strumento, e poi all’insegnamento
induista vero e proprio, complice il fiorire della controcultura hippie degli
anni 60 e del contatto con le comunità indiane, da sempre numerose in Gran
Bretagna per via del passato colonialista.
Il resto della band ha
assecondato fin da subito questa scelta, perché era ovviamente stimolante sia
sotto l’aspetto musicale sia sotto quello esperienziale, ma col passare del
tempo, sotto la spinta delle pressioni discografiche e del business, è
risultato chiaro a tutti che lo spazio per includere questo elemento (e
contemporaneamente mantenere l’onda del successo in un mondo così materiale) fosse sempre minore.
Nel frattempo Harrison ambiva già
a diventare qualcos’altro, e cioè sé stesso, con tutto ciò che questo avrebbe
comportato. Si può dire che la ricerca
avesse evidentemente già dato buoni frutti, se è vero che dall’albero si
raccoglievano canzoni quali ‘Something’, ‘While my guitar gently weeps’ e ‘Here
comes the sun’, con le quali George si era definitivamente guadagnato lo status
di terzo autore nel gruppo.
L’animo era però destinato a
rimanere tormentato, anche nella successiva carriera solista. Quella continua
ricerca di equilibrio era in realtà una prova molto impegnativa per un
trentenne che aveva passato gli ultimi dieci nell’occhio del ciclone mediatico
più grande che la storia avesse mai conosciuto.
La ricerca del contatto con Dio e
la con la propria verità interiore si adagiava sul modello culturale di un
periodo nel quale le rockstar sperimentavano sulla loro pelle le conseguenze del
procurarsi con facilità sostanze che purtroppo solo in minima parte facevano da
porta per la conoscenza dell’assoluto.
Anche nella relazione con le due
donne più importanti della sua vita, Harrison mostrava i limiti di questo
spasmodico tentativo di liberarsi dalla fiera delle consuetudini (e finzioni) mondane,
che fin dall’inizio lui aveva amato/odiato. L’amore libero era spesso un arma a
doppio taglio nel percorso di ricerca di un centro di gravità permanente.
La sensazione che mi è arrivata
poco per volta durante la visione del film, è stata quella di un uomo che aveva
individuato una chiave per una più completa comprensione della sua vita, e che
non aveva mai smesso di farsi delle domande sulla fedeltà ad un bellissimo carrozzone
sul quale era salito tempo prima a Liverpool.
Quel carrozzone, sul quale credo tutti quanti noi vorremmo salire almeno
una volta, aveva però la caratteristica di andare velocemente da nessuna parte,
e questo era il senso profondo dell’inquietudine e della ricerca di Harrison.
Una delle immagini più belle di ‘Living
in the material world’ mostra un George alla prese con il suo amato giardino, intento
a potare le rose o a spostare aiuole. Ne ho tratto una sensazione di serenità, come
quella trasmessa da un monaco che sta lavorando ad un gigantesco mandala. Un mandala
talmente grande da non poterne immaginare il disegno finale.
Lo sguardo di George era
finalmente sereno, alle prese con qualcosa di cui poteva cogliere bellezza e
profumo, e che allo stesso tempo era la rappresentazione più vivida del mutamento
e del ciclo della natura.
Un posto dove il cerchio della sua ricerca poteva
finalmente chiudersi.
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